Coronavirus. Ortona. Il dramma delle morti di Caldari nel racconto di una donna

"Sono Francesca, la nipot di “Vincenz di Bonom” e di “Alfred di Zulù”, la nipot di “lu Ddiegh” e di “Lisett” ... nonché la fij di “Marij di Bonom” e di “Duminicucc’ di lu Ddiegh”. Comincia così una lettera pubblicata, l'8 aprile scorso, su Facebook da Francesca Radico, di Ortona (Ch).

La donna, 45 anni, che vive a Lanciano (Ch), sui social racconta il dramma in cui la frazione di Villa Caldari di Ortona, ora "zona rossa", è piombata da un mese e mezzo a causa del Covid 19. Finora, nel minuscolo borgo, ci sono stati nove morti.

"Quello che è successo a Caldari ha dell’incredibile, - dice -. Io stessa ci sono dentro dall’inizio da marzo; e tuttora, risultati alla mano, non ci posso credere. Quando il nostro Maurizio (Mascitti, la prima vittima registrata nella frazione, ndr) è venuto a mancare, mio padre aveva già la febbre; dal giorno prima aveva detto a me e mia sorella di non stare troppo bene.
Giovedì 5 marzo, come tutti i giovedì, sono da lui.
La notte prima Maurizio ci lasciava, e la mattina in cui arrivo in paese, un’ombra già si posa sui tetti, scivola sulle mura e investe gli abitanti. Si respira tristezza. Caldari è in lutto. Salita in casa, mio padre era rosso in volto e con gli occhi lucidi (quelli tipici con cui mamma mi diagnosticava la febbre) e, come ogni anno nel periodo marzo-aprile, ho pensato: "Ecco qua, al solito si è beccato un malanno per quel suo vizio di uscire fuori senza giacca, dopo essere stato davanti al caminetto acceso". Non abbiamo parlato della sua febbre ma della dipartita di Maurizio".

"Mia sorella e io, a cuor leggero, ci siamo preparate ai turni d’assistenza: per risalire la legna, comprare da mangiare, prendere le medicine necessarie e quant'altro; insomma, tutto quello che un figlio farebbe per un genitore influenzato e che in realtà, a cadenza stagionale, facciamo perché papà puntualmente si becca qualcosa! Passano un paio di giorni e la febbre di mio padre – come da copione - da trentotto scende sotto i trentasette, grazie a due Tachipirine 1000. Il giorno in cui si sa della positività di Maurizio al Coronavirus, papà nel primo mattino non ha febbre, però già a metà mattinata si affacciano i decimi.

"Per chi conosce mio padre, - prosegue la donna - sa che il suo carattere non è il massimo: burbero, pignolo, amante delle sue idee, non va mai da nessuna parte, non gli piace uscire, non gli interessa avere relazioni sociali, insomma, un mix di “asocialità”! Ma a tratti sa anche essere simpatico e socievole, dipende da come gli gira… però alla fine resta sempre mio padre, un padre che, sotto quella “corazza burbera”, ha un buon cuore".

"Da quando è cominciata tutta questa storia, ci hanno insegnato che il corona è "un virus sociale”, te lo pigli se stai in mezzo alla gente, se viaggi, tant’è che nei primi casi sospetti la domanda era: "E' stato all’estero recentemente?" o "E' rientrato dalla Cina?"

"La Cina??! Il massimo dell’uscita "fuori le mura" di papà - prosegue la nota - è congelata al 1961, quando andò militare a Monza... Attualmente la vita di Duminicucc’ si svolgeva entro un raggio di 200 metri intorno a casa: la posta, la farmacia, il negozio di alimentari a due passi; forse il punto più lontano da casa era l’orto (più o meno 500 metri) e altra sua meta era la casa di nonna Luisa in piazza... Negli ultimi tempi ci stava spesso per la ristrutturazione di cui era orgogliosamente contento, più di me che l’avrei abitata; era solito ripetere: "Aggiusctà ‘scta ches nin è bel sol pi nu ma pi Caglier!". Il senso era: sarà una casa che tornerà ad essere aperta e che contribuirà a far sì che Caldari viva!). L’ultimo suo appuntamento era con l’acqua frizzante, sempre in piazza: un paio di volte a settimana per riempire la bottiglia".
Il padre, evidenzia, non era... "tipo da bar, non da chiesa (luoghi canonici dei gruppi più numerosi), e l’affollamento più concentrato" era "quello che trova mmezz a Caglier per le due chiacchiere quotidiane". Poi dritto a casa "davanti alla televisione e alle 7.30 di sera a letto (a vidé Bonolis o Gerry Scotti e dopo lu telegiornal … se non si addormenta prima).
Questa la sua “socialità”".

"Non appena si è saputa la notizia della prima positività a Caldari, che ha portato al “primo caso di decesso in Abruzzo”, ho chiamato il 1500 (e tutta la tombolata di numeri che mi è stata fornita). "Chiamo da un paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo, dove da poco è stato accertato un caso di morte per coronavirus. Mio padre, un uomo di 80 anni che nel 1998 ha avuto un’embolia polmonare, ha una febbre ambigua, debolezza, e qualche colpo di tosse". Era sabato 7 marzo, e papà aveva la febbre già da circa tre giorni (una febbre ambigua che andava e veniva, restando su pochi decimi)".

"Le domande dall’altro lato della cornetta: "Suo padre ha avuto contatti con l’uomo deceduto? Fa fatica a respirare?"
Naturalmente le nostre risposte sono state negative. Secondo loro, non aveva niente di grave. Bisognava solo tenerlo sotto controllo, “in osservazione”, a casa. Passano altri tre giorni. I decimi non desistono. Papà è debole. Non ha appetito.
Martedì 10 marzo invio un messaggio alla dottoressa che ha in cura papà e lei non ci pensa due volte; mi dice: "Domattina passa da me che ti faccio l’impegnativa per raggi al torace “urgenti”; con quella ti devono far passare al Pronto soccorso. Mettiti la mascherina e vai a prendere tuo padre". I medici curanti, già a quella data, non potevano più fare visite a domicilio".

Il giorno dopo faccio esattamente quanto raccomandato... Con l’inquietudine nel cuore, ho accompagno papà al Pronto soccorso di Ortona. Non lo potevo lasciare a casa così conciato: non riusciva quasi più a mangiare ed era chiaramente debilitato.

Girovagare per l'ospedale... Al paziente viene detto prima di spogliarsi e poi di rivestirsi. Ma niente radiografie... "Papà - riprende il racconto - cammina un po’ a fatica, si sta riallacciando la maglia e stiamo tornando verso il Pronto soccorso mentre mi chiede se quello che gli dovevano fare gliel’hanno fatto; io lo guardo sorridente (solo con gli occhi perché avevamo le mascherine), sapevo bene che i raggi non gli erano stati fatti e che lui mi stava prendendo bonariamente in giro, ma tra me e me, lentamente – e con paura - si faceva strada il presentimento che qualcosa non andava, soprattutto se provenivi da Caldari; l’equazione mi pareva semplice: “sintomi” + “Caldari” ꞊ “coronavirus”; ma il tuo cervello non vuole saperne, non vuole assolutamente prendere in considerazione che tuo padre si sia avvicinato così tanto al virus…". 

Di nuovo al Pronto soccorso. "Papà entra, io aspetto fuori. Ore. Da sola.
A un certo punto, dopo la lunga attesa, un medico tanto alla buona, senza protezioni, mi chiama e mi dice: "Ho visitato papà e, data l’età, non mi sembra che abbia qualcosa di grave. Adesso non ha la febbre; ho auscultato il torace e sento un leggero creptìo ma non c’è da preoccuparsi. Lo terremmo qui in osservazione ma lui non vuole restare, quindi può mettere la firma e lo osserverete a casa. Impegnare un’ambulanza per fargli fare i raggi a Chieti mi sembra esagerato". Praticamente – avevo intuito – a Ortona non concedevano più l’accesso ai raggi ai “casi sospetti”, andavano tutti a Chieti … ma se papà era “sospetto” perché non poteva andare a Chieti? "

"... Aspetto. Aspetto. Aspetto. Sono le 14.30.
All’improvviso la porta che divide il Pronto soccorso dalla sala d’attesa si spalanca e un nuovo dottore (questa volta con guanti e mascherina) protesta: "Ho un uomo dentro che non dovrebbe stare qui; è di Caldari e mi riferisce sintomi per i quali va seguita una procedura e non doveva stare qui!!".
Impressionata, davvero impressionata, gli dico che la settimana prima si era provato a “seguire la procedura” e che proprio il medico curante mi aveva consigliato di chiamare il 1500, il 118 e tutto il resto ma, per tutti i numeri contattati, papà non aveva niente di grave.
Ribatte: "La settimana scorsa era diverso, adesso a Caldari sono successe “delle cose”. Ora chiamo il 118 e faccio venire a prendere suo padre". Chiamo mia sorella (che nel frattempo, dati gli ottimistici responsi del mattino, era andata a Caldari a preparare il pranzo), le dico le ultime “novità” e la prego di raggiungermi; avremmo seguito in macchina l’ambulanza...". 

"Alle 15.30 ecco l’ambulanza. Ecco l’addetta a prendere in consegna l’ipotetico infetto.... Dopo pochi minuti escono: lei, davanti, nella sua tuta spaziale, fa strada a papà che la segue col suo passetto lento e con la mascherina ben posizionata sul volto.
Mentre segue “l’astronauta”, lui si volta e ci vede che lo osserviamo passare; si rivolge a mia sorella, fa per venire verso di lei e dice: «Eh! Pur tu sctì ekk?!» … un momento di tenerezza infinita. Ma la ragazza che lo scortava aveva fretta, per cui dico a papà: "Va’ pà che fors l’ambulanz n’zi po firmà tanta temp". Lui va.
Si siede al suo posto e la signorina gli allaccia la cintura di sicurezza. Mai avrei immaginato che da allora, noi, papà non lo avremmo più visto. Era l’11 marzo 2020. Mercoledì".

Al Pronto soccorso di Chieti  dicono loro "di tornare a casa: la cosa sarebbe andata per le lunghe e non era il caso di restare nei paraggi dato il grande numero di contagiati" che passava di lì. "Esco dall’edificio e riferisco a mia sorella. Siamo indecise, disorientate, non sappiamo che fare. La nostra speranza è la fiammella di un fiammifero acceso nel buio… Sei già stanco, psicologicamente stanco, e non sai che quello è solo l’inizio, l’inizio di momenti terribili di attesa, di ansia, terrore, immobilità… di solitudine; l’essenza dello “sconosciuto”, della paura che fa quello che non si conosce, è concentrata tutta in un virus che ti penetra nella carne e nell’anima...". 

"La sera stessa, la prima telefonata dal medico dell’infettivologia di Chieti: papà è grave. Polmonite bilaterale. Il dottore è certo che si tratti di Coronavirus ma nel frattempo che si aspetta il tampone, papà è messo in una stanza, isolato. Nel giro di quattro giorni la situazione precipita rovinosamente: papà alterna momenti di lucidità a momenti di perdita di coscienza, è preda di stadi soporiferi innescati dalla mancanza d’ossigeno; non si alimenta, ha sempre più bisogno d’ossigeno. Sono momenti di dolore assoluto, di disperazione, di pianto, di perdizione e impotenza; non puoi fare niente, puoi solo aspettare anzi, “devi” aspettare. Una situazione inumana".

Quando si era trattato di mia mamma, la sua malattia era stata certo dura da affrontare, ma lo si era fatto insieme: la si accompagnava in ospedale, la si andava a trovare quando era ricoverata, la si accompagnava per la riabilitazione; ci si poteva chiacchierare e litigare, la si poteva baciare, accarezzare, abbracciare… e Dio solo sa quanto siano importanti un abbraccio, una mano tenuta stretta, un bacio, una carezza: un solo sorriso può fare miracoli per un familiare ammalato… e per chi l’accudisce.
Nel caso di papà invece tutto si stava svolgendo con una velocità micidiale, spiazzante, e la cosa peggiore era (ed è) che non lo si poteva assistere, anzi, bisognava stargli lontano".

"Il 15 marzo, domenica, arriva la risposta del tampone: Domenico Radico positivo al Covid19.  Sai che in quell’attimo, anzi, a partire da quell’attimo, il tuo mondo fatto di fragili sicurezze costruite a fatica, è miseramente destinato a crollare; lo strazio è agghiacciante. Sai che non ti salverai, lo hai sentito per mesi ai notiziari, lo hai visto in tv: scene di una atrocità spaventosa ti hanno insegnato che “devi aver paura”, ti hanno parlato di morte e ti hanno inculcato che non c’è via di scampo".

"Da quando papà è entrato in ospedale, non ci sono mai state date buone notizie sulla sua condizione. Avrebbero voluto evitargli la Terapia intensiva per una questione di età, ma non hanno potuto farne a meno perché i suoi polmoni peggioravano di giorno in giorno.
Intubato da circa la metà di marzo, attualmente servirebbe un miracolo...".

"Spesso ripenso a quel suo terzo giorno di febbre, quando ci era stato detto di non preoccuparci: "E' solo un raffreddamento da tenere sotto controllo, una normale influenza". Non mi sento di colpevolizzare, non ne ho la forza, alla fine si era tutti impreparati di fronte a un’emergenza della quale non si era capita – secondo me - la portata (e riconosco che io, in prima persona, non l’avevo intuita), ma non posso fare a meno di pensare che un essere umano, papà, sta perdendo la vita... Certo, non è che adesso io non mi chieda ugualmente “perché”; non è che sia riuscita a realizzare perché mio padre, che fino a due giorni prima si occupava dell’orto, della casa – anche quella in ristrutturazione! -, della sua Fiat 600, del garage con gli oggetti antichi ordinatamente esposti, dell’aceto “gne la mamm viecchij di cent’ann” e tutto il resto, stava poi, nemmeno una settimana dopo, “grave” in un reparto d’ospedale".

Anche lei è finita in ospedale, infettata. "Durante la mia stessa degenza ho via via realizzato che Maurizio e papà avevano incubato il virus più o meno nello stesso periodo, ossia verso la fine di febbraio. "Per cui, mi dicevo "il primo contagio dev’essere partito durante la seconda metà del mese, forse negli ultimi dieci giorni".
Ma poteva Maurizio essere stato il primo a contrarlo, oppure era solo stato il primo a “cadere” a causa di qualcosa che lo rendeva più vulnerabile alla malattia? In realtà, in quanti si erano contagiati senza mostrare i sintomi? Qual era il legame con papà?
Quante ipotesi...".

Poi i "messaggi che arrivavano dal paese, con aggiornamenti che mi restituivano l’immagine di una Caldari da cimitero di guerra... Ragionavo e valutavo, cercando un movente, il perché di tante morti, il perché di tanta sofferenza: troppe persone erano entrate nell’orbita del virus a seguito dei primi casi. Insostenibile. Mi chiedevo come fosse partito il disastro che stava spezzando i legami (almeno quelli terreni), che ci stava portando via gli affetti nella solitudine più nera.
Ma la risposta non la trovi. Puoi solo pensare a quelle persone che hanno accompagnato la tua crescita e che adesso non ci sono più; gente genuina che, come ci insegna San Francesco, “con amore ed umiltà costruisce il proprio sogno”... Gente di cuore … e forse questo è il segreto, il fulcro di una comunità: l’affetto che lega tutti, incondizionatamente". 

"Il tempo scorre, e gli eventi, catastrofici o lieti che siano, non arrestano il suo incedere.
Dopo tanta dannazione arriveranno tempi migliori e già Caldari inizia il suo recupero con il ritorno a casa dei “vincitori”: espressioni concrete della lotta contro la malattia, della vittoria sul Covid19, un nemico che – ora lo sappiamo davvero - si può anche annientare.
Ci vuole carattere e forza di volontà, ma uscirne si può. Verranno tempi migliori sì, e arriverà anche il giorno in cui avremo modo di ricordare i nostri cari, coloro che abbiamo perso dentro il girone infernale nel quale siamo caduti; e li ricorderemo così, ad uno ad uno, come si conviene".

"Sono lieta per chi è tornato, prego per chi è andato; prego e spero ancora per mio padre, consapevole della strada che ha intrapreso; ma nonostante la parola della scienza, non riesco a fare a meno di sperare. E so che se “lu virùs” non l’avesse colpito, sarebbe – come diceva lui - vissuto cent’anni come la sua mamma (anzi, a rigor di logica, di più, perché lui "è lu fij"!)...".

Domenico Radico, il papà di Francesca, è deceduto, a Chieti, il 13 aprile, nel giorno di Pasqua.

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